GIUSEPPE MELONI

 

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Centri abbandonati nel sud-ovest degli Stati Uniti

Gli insediamenti Anasazi

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IMMAGINI

DISEGNI

 

 

Sviluppo e crisi demografica tra XI e XIV secolo

 

Uno dei fenomeni che in questi ultimi anni è stato al centro dell’attenzione negli studi di storia medioevale è quello legato allo sviluppo e alla crisi degli insediamenti umani tra XI e XIV secolo. Anche in Sardegna questo aspetto della storia delle popolazioni è stato di recente approfondito. Si è indagato a fondo sui motivi che hanno determinato lo sviluppo demografico che si registra nell’isola a partire dai decenni finali dell’XI secolo e si è potuto mettere il fenomeno in relazione con le aperture politiche, strategiche, culturali, economiche, produttive e commerciali che hanno determinato, proprio in quel periodo, la fusione tra le aspirazioni del mondo locale e quelle delle realtà esterne. L’espansione mediterranea delle repubbliche marinare di Pisa e Genova ha potuto così entrare in contatto con un mondo isolano che emergeva da secoli di isolamento nel corso dei quali si erano sviluppate le istituzioni locali, i regni sardi, o giudicati. Da quanto ne derivò, in termini di sviluppo economico, scaturirono spinte di progresso anche nel campo demografico. La popolazione crebbe di numero e si distribuì nel territorio modellando una geografia degli insediamenti che modificava profondamente quella che aveva caratterizzato i secoli dell’alto medioevo. Oggi questi aspetti dell’insediamento sono sufficientemente noti. Possediamo conoscenze abbastanza approfondite sulla localizzazione di quasi tutti i centri abitati del periodo, anche se solo il 40 % di questi è sopravvissuto fino a noi. Si calcola che già nel XVIII secolo, su oltre ottocento villaggi a noi noti che prosperavano fino agli inizi del XIV secolo, ne sopravvivessero poco più di trecentocinquanta.

Sui motivi che hanno determinato, a partire dagli inizi del Trecento, e con un’accelerazione esponenziale a partire dalla metà dello stesso secolo, il progressivo abbandono di molti centri abitati, soprattutto in vaste aree di pianura e nelle zone costiere, si è scritto molto. Sono emerse motivazioni di varia portata tra le quali sembrano più importanti quelle legate al ripetersi frequente di guerre, al ripresentarsi a scadenze ravvicinate di fenomeni epidemici, al riproporsi di crisi economiche legate al mancato progresso dell’agricoltura cerealicola.

Per giustificare il fenomeno degli abbandoni, infine, è stata a volte richiamata una motivazione legata a modificazioni del clima, forse poco apprezzabili in termini numerici (si parla di differenze di pochi gradi di temperatura) ma determinanti per lo sviluppo di condizioni che possono influire sui sistemi di vita delle popolazioni.

Per capire quanto il fattore climatico, possa aver contribuito a trasformare il quadro demografico dell’isola tra XIV e XV secolo, non va trascurato uno sguardo di raffronto con altre realtà, spesso lontane da quella che stiamo studiando, talvolta a prima vista completamente estranee poiché localizzate in aree geografiche senza alcun rapporto col mondo mediterraneo.

Molto si sa circa l’abbandono dei centri rurali nell’Europa mediterranea e continentale. Già nel periodo di passaggio tra XIII e XIV secolo, e soprattutto agli inizi del ‘300 si registrarono i primi segni di una crisi destinata a segnare profondamente le popolazioni europee. Questi segni furono tanto più evidenti in quanto si manifestavano dopo i tre secoli di progresso, di crescita demografica e di miglioramento delle condizioni di vita delle popolazioni (XI-XIII).

Ampliando ancora il nostro orizzonte possiamo fare riferimento al verificarsi di casi analoghi in un periodo cronologicamente assai vicino a quello che stiamo esaminando (tra XIII e XIV secolo), in vaste aree dell’America settentrionale.

Certo questi raffronti si presentano più difficili poiché i soggetti da esaminare e mettere a confronto sono assai lontani e le rispettive realtà demografiche appaiono, a prima vista, del tutto slegate dal contesto delle terre del Mediterraneo centrale perché assolutamente estranee e sconosciute le une alle altre.

In particolare destano la nostra attenzione studi recenti che hanno individuato il motivo dell’abbandono di vere e proprie città nei territori del sud-ovest degli Stati Uniti, fra le altre cause, in un profondo mutamento del quadro idro-geologico.

Insediamento umano nell'America settentrionale

 

Tra le popolazioni del Nord-America che ci sono più note per essere state al centro di una vasta letteratura o per aver costituito modello per una cinematografia non sempre attenta sotto l’aspetto etnologico, ci sono sicuramente quelle che si erano stanziate nella vasta prateria delle regioni centrali degli Stati Uniti. Meno conosciuti sono quei nuclei di popolatori che sono noti agli studiosi come costruttori di vere e proprie città.

Era un mondo più sviluppato di quello che i conquistadores trovarono nella regione; eppure anche questa società evoluta ebbe il suo momento di crisi demografica che portò gli abitanti di questi importanti centri ad abbandonare i loro insediamenti. Per spiegare questo fenomeno gli studiosi hanno parlato di “collasso ecologico provocato da pochi anni di persistente siccità” che si sarebbe verificata nel tardo ‘200. Il momento dell’abbandono dei centri, la loro cancellazione dalla scena storica è localizzata cronologicamente nei primi decenni del 1300. Non possiamo ignorare sorprendenti analogie tra realtà a prima vista assolutamente distanti e prive di rapporti.

La regione che ci interessa per la nostra ricostruzione è quella dove si sviluppò la cultura Pueblo, che soppiantò tra l’VIII e il IX secolo della nostra era quella dei cosiddetti “fabbricanti di cesti”. Da una cultura che ci ha tramandato i più significativi esempi attraverso prodotti dell’attività artigianale dell’intreccio di fibre vegetali, si passò ad un mondo nel quale profonde trasformazioni sociali determinarono la nascita di quei centri abitati dove le nuove tecniche costruttive producevano un’edilizia in muratura. Vennero costruiti edifici dalla struttura originale e particolare che non presentavano analogie con le tecniche edilizie seguite in altre regioni nord-americane, differenti persino per consistenti aspetti da quelle di un’area pur vicina come quella del Messico settentrionale. Gli abitanti di questi villaggi si stanziarono in un’area geografica che viene definita four corners per il fatto che è segnata dalla confluenza dei confini di quattro stati. L’ambiente, oggi desertico, ha permesso che i limiti di questi stati, Utah, Colorado, New Mexico, Arizona (per seguire una localizzazione in senso orario) si intersecassero con due linee di demarcazione perfettamente perpendicolari tanto da disegnare sulla carta una linea che corrisponde esattamente all’allineamento di meridiani e paralleli e tracciando idealmente sul terreno i four corners, quattro angoli retti.

L'origine degli Anasazi

 

In questa area geografica si era stanziato ben duemila anni fa il popolo degli Anasazi, (Ah-nah-sah-zee), gli “Antichi, diversi da noi” come vennero definiti con un alone di mistero dalle tribù Navajos, che li hanno sostituiti e che osservavano con ammirazione e rispetto le loro imponenti costruzioni abbandonate. Gli indiani Hopi li chiamarono Hisatsinom, che significa "Coloro che sono venuti prima” Secondo un’altra terminologia meno usata essi vennero definiti Moki, oppure Moqui, parola che deriva ancora una volta dal linguaggio Hopi, che significa “i morti”. Quello che è certo è che non sappiamo come le stesse popolazioni usassero definirsi.

Dalla principale zona di insediamento gli Anasazi estesero la loro presenza anche nelle zone limitrofe fino al momento nel quale, forse anche per l’esaurimento di questa spinta espansionistica, conobbero un momento di vero a proprio collasso. La loro cultura ebbe il periodo di massimo sviluppo tra X e XII secolo; questo ci permette di notare come questa spinta di progresso sia stata contemporanea a quelle analoghe di regioni lontane come quelle mediterranee, anche se del tutto slegata per le motivazioni che la determinarono.

Proprio su questa popolazione, anche grazie al maggior numero di informazioni giunte fino a noi, si è concentrato il maggior numero di ricerche che tendono a ricostruire le tradizioni preistoriche delle regioni del sud-ovest. Importanti a tal fine sono i dati che scaturiscono dall’esame dei resti arborei largamente usati nell’edilizia dagli Anasazi, che offrono notizie altrimenti inesistenti.

Gli studiosi hanno analizzato il materiale ligneo usato nelle costruzioni degli Anasazi confrontando gli anelli di accrescimento delle travi con quelli riscontrabili in alberi di datazione sicura. Ne è derivato un quadro cronologico che, se sapientemente intrecciato con quanto emerge dall’esame dei resti ceramici rinvenuti nei vecchi villaggi abbandonati, appare oggi sostanzialmente basato su dati di fatto accertati.

Duemila anni fa la cultura dominante dell’area in questione, circoscritta a nord-ovest dal fiume Colorado e a sud-est dal Rio Grande (l’altopiano denominato Colorado Plateaus), era quella definita San Jose, una delle numerose varianti delle popolazioni di quelle aree desertiche. Proprio da questo ceppo provenivano le popolazioni Anazazi, che svilupparono la loro presenza caratterizzata dalla loro propensione allo sviluppo di forme artigianali che li differenziavano dalle altre popolazioni del periodo. I Mogollon, e gli Hohokam si erano stanziati entrambi a meridione dell’area di sviluppo degli Anasazi, i primi in corrispondenza delle omonime montagne, al confine tra new Mexico e Arizona, i secondi più ad occidente, nell’Arizona meridionale. La denominazione Mogollon ha una radice comune con quella delle omonime montagne, mentre il nome Hohokam deriva dall’appellativo attribuito a questa popolazione dagli attuali abitanti indigeni dell’area, gli indiani Pima, che definirono i loro antenati come “quelli che se ne sono andati”. Mentre queste due popolazioni ci hanno lasciato significativi resti ceramici, gli Anasazi, meno progrediti in origine dei loro confinanti, sembra ignorassero queste tecniche artigianali per cui usavano semplicemente recipienti costruiti con fibre vegetali. Per questo, a seconda del momento, essi vennero definiti Cestai, quindi Cestai modificati, infine, a partire dall’VIII secolo, possono essere identificati genericamente col nome Pueblo. Diversi esemplari di questa singolare arte sono pervenuti fino a noi. Ci permettono di apprezzare le tecniche di costruzione, basate sull’uso di alcuni stecchi di maggiore consistenza che, intrecciati a spirale, costituiscono l’intelaiatura del recipiente, attorno ai quali sono intrecciate fibre più sottili, tanto da determinare una certa ermeticità del manufatto che talvolta veniva assicurata ulteriormente con la tintura di pece. Al manufatto veniva così garantita una impermeabilizzazione così efficace da permettergli di poter essere usato anche come recipiente per liquidi come latte o acqua. La colorazione si basava generalmente su una base di bianco con decorazioni soprattutto rosse e nere. Fibre vegetali venivano usate anche per la manifattura di abiti, soprattutto gonne e borse.

Alle origini sembra che la loro arretratezza nei confronti dei popoli confinanti interessasse anche il mancato sviluppo dell’agricoltura e forme di sostentamento, pur comuni agli altri ceppi, come la caccia, praticata, però, con strumenti rudimentali,  senza ancora l’uso di archi e frecce. In questi primi secoli, attorno al primo d. C., anche le tecniche edilizie usate dagli Anasazi erano estremamente rozze. Spesso gli insediamenti erano provvisori, anche se, talvolta, venivano realizzate semplici costruzioni a pianta circolare col centro ribassato, coperte da una volta a cupola, col pavimento in semplice terra battuta. Le pareti erano costituite da pali di legno cementati con fango. Una comunità di Anasazi, che non trascuravano di adattare a scopi abitativi anche le numerose grotte naturali di cui sono costellate le scoscese coste dei numerosi canyon, poteva, in quei tempi antichissimi, essere costituita da poco più di 10 unità che si distribuivano in tre o quattro abitazioni. Raramente i centri erano più grandi (fino a venti abitazioni) con un numero di abitanti proporzionalmente maggiore.

I primi centri abitati stabili

 

Fu solo dopo una lunga evoluzione, attorno al V-VI secolo d. C., che semplici edifici scavati nel terreno, usati fino ad allora come depositi per generi alimentari, subirono sostanziali trasformazioni fino a diventare vere e proprie abitazioni sul modello delle case a pozzo che i vicini Mogollon costruivano già da tempo. Le abitazioni, parzialmente scavate nel terreno, divennero più spaziose e resistenti: potevano avere un diametro tra i tre e gli otto metri; alle pareti i pali impastati con fango fecero posto all’uso di materiale più solido, in genere lastre o blocchi di pietra cementate anch’esse con argilla o fango. Nonostante la friabilità di questo materiale, comunque, grazie proprio alla secchezza del clima della zona, queste costruzioni non hanno subito consistenti danni a causa delle condizioni climatiche, anche se talvolta contano dieci secoli di storia alle spalle. I tetti, sempre a cupola, erano ricavati dall’accostamento di pali e frasche che lasciavano al centro un’apertura usata sia per lo scarico dei fumi, sia come ingresso vero e proprio.

Altri sostanziali cambiamenti si verificarono in quel periodo; la scoperta di armi tecnologicamente all’avanguardia come arco e frecce consentì una pratica delle attività venatorie più redditizia. Allo stesso tempo l’agricoltura faceva i primi passi offrendo a queste popolazioni i suoi prodotti in quantità tali da garantire, al di là della semplice sopravvivenza l’uso di utili riserve alimentari. Il mais, i legumi, la frutta divennero base giornaliera dell’alimentazione mentre venivano addomesticati animali come i tacchini e i cani, destinati anche all’alimentazione.

Al termine di questa fase di evoluzione gli Anasazi, definiti ora “cestai modificati”, iniziarono a imitare le popolazioni meridionali (come abbiamo visto più evolute), anche con la produzione di materiale ceramico. Le tecniche, assai rudimentali in una prima fase, andarono via via raffinandosi. Le fibre miste ad erba e sabbia a grana grossa presenti nei primi impasti lasciarono col tempo il posto a composti più raffinati che portarono alla produzione di oggetti migliori, più resistenti e più pregevoli anche dal punto di vista estetico.

Confronto con altre culture

 

Fu verso l’VIII secolo d. C. che le caratteristiche dei Cestai lasciarono il posto a quelle dei Pueblo. Gli studiosi hanno ipotizzato cambiamenti sostanziali nella popolazione anche dal punto di vista anatomico. In particolare si è studiata la diversa forma del cranio tra le popolazioni del periodo precedente il 700 e quelle del periodo successivo, cosa resa possibile grazie alle condizioni atmosferiche della zona, dove l’umidità è bassissima. Da oligocefali, gli abitanti della zona divennero brachicefali. All’ipotesi che ci sia stato un incontro di popolazioni di diversa origine con il prevalere delle nuove popolazioni, se ne è contrapposta un’altra, più semplice. Il cambiamento anatomico potrebbe essere da attribuire ad una diversa concezione del trasporto dei neonati. Da un tipo di culla da portare a spalla, a spalla a fibra morbida, si sarebbe passato ad un modello costruito con assi di legno che, comprimendo progressivamente (e inavvertitamente) il cranio dei piccoli, avrebbe portato, col tempo, alla modifica di caratteristiche strutturali.

Fu allora, a partire dall’VIII secolo che gli Anasazi, una volta apprese le tecniche artigianali dai Mogollon e dagli Hohokam, intrapresero una fase di fabbricazione di manufatti ceramici di una certa originalità, distaccandosi così dai modelli fino ad allora usati, tanto da rendere oggi distinguibile la produzione delle diverse culture. Le principali differenze si riscontrano a proposito dei colori di decorazione: rosso e marrone per le popolazioni meridionali, nero, grigio, bianco, per gli Anasazi. La differenza deriva dalle diverse tecniche di cottura del materiale che, nel caso degli Anasazi, prevedeva l’uso di forni chiusi, probabilmente ricavati al di sotto di cumuli di letame essiccato. L’evoluzione delle tecniche di realizzazione dei manufatti in ceramica toccò i suoi vertici verso il XII secolo, quando le colorazioni tendenzialmente limitate al bianco e al nero furono ravvivate con l’uso di pigmenti policromi con tonalità l’aggiunta di tonalità arancione e gialla.

In quello stesso periodo l’evoluzione tecnologica toccò anche la sfera abitativa. Le case a pozzo circolari furono sostituite da abitazioni a livello terra, di forma rettangolare. Ambienti a pozzo, ai quali si continuava ad accedere dall’alto, rimasero per finalità di aggregazione, di riunione, soprattutto di componenti del villaggio di sesso maschile che così, in una società a forte componente matrilineare, avevano l’opportunità di mantenere l’identità di appartenenza.

Sviluppo demografico in Europa e in America tra I e II millennio

 

Fu attorno al Mille che gli Anasazi conobbero il periodo di maggiore sviluppo che si tradusse in un più consistente sviluppo demografico sia in termini quantitativi che qualitativi. E’ un dato singolare il contemporaneo verificarsi di fenomeni simili anche nella lontana Europa. Nel vecchio continente un aumento significativo e costante della popolazione si verificò in un periodo che si faceva solitamente coincidere con l’inizio del II millennio d. C. Oggi si tende ad anticipare questa datazione al X secolo, con qualche preferenza per la seconda metà. Il continente europeo stava per uscire da un lungo periodo nel quale le modificazioni climatiche avevano avuto sulla regione effetti estremamente negativi. Dal VI all’VIII secolo si verificò un calo della temperatura media che, sebbene su valori minimi (si calcola che fosse inferiore a quella attuale di solo ½ grado) mise a dura prova la popolazione. Intere regioni del settentrione subirono un consistente spopolamento a favore delle aree più temperate. Il bosco e la palude ripresero il proprio posto in concorrenza con la presenza dell’uomo. Alberi come i pioppi, i salici, gli ontani, ripresero a costituire elemento essenziale di un paesaggio dove l’uomo veniva sempre più emarginato. Anche la fauna subì un’evoluzione a favore di specie adatte al nuovo clima. Bisonti, buoi selvatici, orsi, ma anche cinghiali, lontre, castori, lupi, si moltiplicarono proprio grazie a condizioni climatiche che li favorivano soprattutto perché ostacolavano la presenza dell’uomo. Colture come quella del grano cedettero il passo a quelle più resistenti come l’avena o la segale, per di più coltivate con un’aspettativa di resa che non superava generalmente il valore di 4/1.

Gli studi demografici assegnano all’Europa dell’VIII-IX secolo una popolazione che dai poco meno dei 70 milioni di abitanti del periodo romano si era più che dimezzata, ridotta a valori che non sembra raggiungessero i 30 milioni. La densità era di soli 3 abitanti per kmq a fronte dei 68 attuali. Le stesse statistiche assegnano all’Italia fino al secolo IX una popolazione anch’essa proporzionalmente assai ridotta, attorno ai 4 milioni di abitanti. Questa cifra sarebbe triplicata nel corso dei successivi quattrocento anni, nel XIV, alla vigilia delle crisi demografiche che caratterizzarono quel secolo. L’espansione demografica maggiore, comunque, si verificò a partire dall’XI secolo quando le popolazioni europee si trovarono di fronte ad una vera e propria rivoluzione climatica. Le fonti riportano dati significativi in proposito. L’aumento della temperatura, pur ridotto a pochi gradi, permise la coltivazione di prodotti prima impensabili alle alte latitudini, come la coltura della vite in regioni generalmente inadatte, come quelle inglesi. Questo portò ad una maggiore disponibilità di terre da coltivare, a migliori condizioni naturali per una produzione più abbondante, a condizioni di alimentazione, e quindi di vita sostanzialmente migliori di quelle che avevano caratterizzato i periodi precedenti. L’aumento di produzione e una situazione strategica nell’area mediterranea più favorevole portarono ad una programmazione della produzione agricola non più diretta solo al sostentamento, ma incanalata verso un sistema produttivo che aveva negli scambi, nei commerci, il punto d’arrivo.

Anche nelle aree nelle quali erano stanziati gli Anasazi dovette verificarsi, nello stesso periodo, una serie di variazioni climatiche favorevoli, che ebbero positivi effetti anche sulle popolazioni americane: aumento sia della temperatura che dell’indice di piovosità, fenomeni che avrebbero portato le colture a prosperare. L’agricoltura, che ormai veniva praticata su vasta scala, anche se con accorgimenti che non contemplavano il controllo dell’irrigazione, ebbe un’impennata in termini di resa e qualità dei prodotti. Ci fu così un sostanziale miglioramento delle condizioni di vita. Lo sviluppo di questo popolo si manifestò, soprattutto ai danni dei vicini Mogollon, ai quali furono sottratte consistente fette di territorio in corrispondenza del bacino settentrionale del Rio Grande.

In pratica le attività dell’uomo legate alla produzione dei generi agricoli avrebbe passivamente beneficiato sia in Europa che nell’America settentrionale, di nuove e più favorevoli condizioni climatiche che, però, erano destinate, nella loro variabilità, a non durare nel tempo, anche se su scala plurisecolare, come vedremo tra breve.

A partire da quel periodo o in un momento di poco successivo, che possiamo datare alla fine del X secolo, gli Anasazi iniziarono ad organizzare l’insediamento su nuove basi. Il sistema di distribuzione della popolazione in un gran numero di piccolissimi villaggi iniziò ad entrare in crisi; furono fatte nuove scelte che portarono alla realizzazione di agglomerati molto più consistenti in termini numerici, e al contemporaneo abbandono dei villaggi che avevano dimensioni e valori demografici troppo piccoli per poter sopravvivere.

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