GIUSEPPE MELONI
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Centri abbandonati nel sud-ovest degli Stati Uniti Gli insediamenti Anasazi (2) |
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Nuove popolazioni: Apaches e Navajos
Probabilmente non furono estranei a questa scelta i nuovi contatti che gli Anasazi ebbero con l’aggressività di nuove popolazioni che migravano dal settentrione alla ricerca di nuove terre da sfruttare. Furono forse le incursioni dei bellicosi Atapasca, nucleo etnico originario di Navajo e Apaches, una delle cause che portarono le popolazioni indigene ad iniziare la costruzione di villaggi sotto roccia nei quali trovarono rifugio. L’evoluzione dei Navajos, una delle popolazioni indigene più portate a metabolizzare i cambiamenti e con il maggiore spirito di adattamento, si è realizzata nell’arco di pochi secoli. Il loro nome, contrariamente all’apparenza, non deriva né dallo spagnolo né ha radici nella lingua di questo popolo. I Navajos, così come gli Apache, popolo fratello, si definivano Dineh o Denè; questo termine significa Il Popolo. Il nome più recente di Navajos è una trasformazione dell’appellativo che fu loro riservato dagli indiani Tewa del New Mexico che, entrati in contatto con loro, li indicavano come stranieri, nemici. Dopo qualche tempo dal primo insediamento, quando i nuovi arrivati misero radici iniziando a praticare attività stanziali, vennero definiti Apaches de Nabahu, ossia Stranieri del Campi Coltivati. Gli stessi Apaches chiamarono i Navajo " i Coltivatori". Il termine Navajo, quindi, richiama l’attitudine a diverse forme di agricoltura di questo popolo. Identificati grazie allo studio della loro lingua, del ceppo Athabasca, uno dei più primitivi, provenivano da una zona posta tra il nord-ovest del Canada e l’Alaska e costituivano probabilmente l’ultima ondata migratoria da nord a sud, che superò le sedi prescelte per uno stanziamento definitivo dalle popolazioni che li avevano preceduti. Non è chiaro quale percorso li guidò fino al Four Corners. Probabilmente, mentre altri nuclei di popolazione si disperdevano verso gli altri punti cardinali, gli antenati dei moderni Navajos, partendo dalla Columbia Britannica, viaggiarono sul costone orientale delle Montagne Rocciose. Si muovevano, per motivi organizzativi, divisi in piccoli gruppi: era necessario cacciare durante gli spostamenti e la presenza di nuclei di persone molto numerosi avrebbe spaventato la selvaggina e non avrebbe trovato nella vegetazione selvatica adeguato sostentamento. Trovato un luogo ospitale, vi si stanziavano provvisoriamente, per periodi che potevano vedere anche l’avvicendamento di generazioni, finché non giunsero al luogo di destinazione dove oggi vivono. Uno dei loro primi insediamenti sembra essere quello di Kinya, ormai in rovina, presso il Chaco Canyon, dove potrebbero essere giunti nel decennio a cavallo tra XI e XII secolo. Da questo primo nucleo partirono i colonizzatori della valle del San Juan. A fianco di questa direttrice principale di spostamento è probabile che ce ne siano state altre; lo si deduce dalla varietà di tradizioni, di dialetti, di consuetudini che contraddistinguono diversi gruppi Navajos. Un indizio tipico del fatto che l’acclimatamento dei Navajos nelle aree che stiamo studiando fu graduale e che le loro tradizioni così come le loro conoscenze erano riferite a territori diversissimi (pianura, montagna, deserto), si nota considerando come essi definissero quella che divenne la materia prima, alla base della loro alimentazione, il granturco, con un termine che significa “cibo per gli stranieri”. Importante per l’evoluzione sociale e per le conseguenze urbanistiche dei Pueblo, discendenti dagli Anasazi, fu l’impatto con le nuove popolazioni, soprattutto con i Navajos. Questi entravano per la prima volta in contatto con una civiltà che li riempiva di meraviglia per l’uso che faceva di manufatti di argilla, per le ardite costruzioni che, articolate su più piani con murature di pietra e argilla potevano ospitare anche diverse centinaia di persone. Ma soprattutto un grande impatto fu per i nuovi popolatori prendere conoscenza con le colture delle popolazioni stanziali, che avevano raggiunto un livello di evoluzione tale da offrire loro mezzi di sostentamento sempre meno aleatori. Essi conobbero così l’uso di prodotti come fagioli, meloni, tabacco, cotone e soprattutto granturco. Quest’ultimo, ampiamente usato dopo adeguata macinazione per produrre alimento che veniva cotto in vari modi, proveniva da una selezione naturale. Il grano alimentare che era apparso in questi territori migliaia d’anni prima, traeva la sua origine da una serie di piante selvatiche finché, coltivato ed usato dalle diverse tribù in modo differente, si era differenziato in diverse varietà tra le quali, per adattamento ai climi, ai suoli, per resa e qualità, non era prevalso sugli altri tipi il granturco, o mais. |
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Nascita e sviluppo dei grandi centri Anasazi
Fu proprio l’arrivo delle nuove popolazioni e, in particolare, l’aumento numerico dei nuovi colonizzatori, a determinare, nel corso del XII secolo l’abbandono da parte delle popolazioni indigene preesistenti i siti più esposti e di minori dimensioni per rifugiarsi in centri più consistenti dal punto di vista numerico. In particolare erano temute le razzie che avevano come obiettivo le donne e il fatto di doversi confrontare con guerrieri dotati di armi considerate superiori, come gli archi costruiti con tendini dei Navajos. In base a queste considerazioni devono considerarsi così smentite interpretazioni superate che individuavano proprio nelle incursioni ostili il motivo dell’abbandono dei grandi agglomerati nascosti e quasi inaccessibili. Sono ben note le immagini di grandi abitati che sembrano scavati nella roccia, dove la montagna offre una parete di sottofondo e giunge persino a sostituire il cielo. E’ un po’ l’impressione che possiamo avere quando visitiamo quel gioiello archeologico dal nome molto conosciuto, ma dallo sviluppo storico ancora tutto da scoprire, che corrisponde alla realtà di Tiscali. Un’impressione, nel caso americano, amplificata dalle dimensioni e dall’accuratezza edilizia, ben superiore dal punto di vista tecnologico al caso sardo. Questi centri abitati erano dotati di abitazioni architettonicamente assai evolute. Si trattava di palazzi a più piani (anche 5 o 6), che rimasero fino al tardo ‘800 le costruzioni più alte di tutti gli Stati Uniti. Le loro strutture erano spesso ricavate con un sapiente accostamento della muratura alla roccia viva che fungeva da basamento, sostegno, protezione dalle intemperie e, come abbiamo visto, da possibili incursioni di elementi ostili. Le stanze più esterne, più luminose, erano adibite ad abitazione mentre quelle più interne, addossate alla parete rocciosa, poiché più protette e più buie, fungevano da depositi, da magazzini. Tra le case non mancavano cortili centrali spesso angusti ma comunque utilissimi come luogo di ritrovo o, semplicemente, di disimpegno per dare aria e luce agli ambienti circostanti. Di questi agglomerati, vere e proprie città, rimangono esempi emblematici nei dodici grandi centri del Chaco Canyon, a sud di Farmington (New Mexico nord-orientale), situati sul costone settentrionale, dei quali il più noto è quello di Pueblo Bonito, probabilmente la capitale. A pianta semicircolare, fu costruito nell’arco di circa due secoli; è articolato in circa 800 abitazioni che, nel momento di maggiore sviluppo, attorno al XII secolo, poteva contare oltre 1.000 abitanti. Accanto alle abitazioni esistevano ben 35 importanti centri di ritrovo collettivi o familiari, denominati Kiva, dove venivano praticati riti dei quali oggi si è persa la traccia, anche se qualcosa della tradizione può essere rimasto nelle cerimonie ancora che oggi tengono in vita le popolazioni Pueblo. Come in tutte le civiltà del passato, dovevano essere spesso legate al culto delle acque, della fertilità, della natura nel suo complesso. Le mura esterne di Pueblo Bonito non presentano aperture adibite a finestre o porte, anche se non è escluso che in un prima fase queste fossero presenti. L’accesso al complesso cittadino avveniva tramite scale a pioli ancorate alla roccia o alla muratura. E’ un chiaro segno della funzione strategica e difensiva del complesso, esposto, come abbiamo visto, alle incursioni di nuove popolazioni bellicose come Navajos e Apache. Nel versante meridionale dello stesso canyon sono ancora visibili i resti di piccoli agglomerati, probabili centri di sevizio i cui abitanti, in caso di pericolo, potevano rifugiarsi nei villaggi-fortezza. Più probabilmente sono ciò che rimane di precedenti scelte insediative soppiantate dall’inurbamento cittadino e dalla scelta di un costone più protetto. Il massimo sforzo per la realizzazione di queste ardite costruzioni urbane, perfettamente adattate alla morfologia tormentata della regione si concretizzò a partire dalla fine del X secolo e proseguì fino alla fine del XIV. I centri disposti originariamente sulla sommità degli altopiani, a partire dalla metà dell’XI secolo progressivamente furono abbandonati a favore degli insediamenti definiti cliff dwelling, abitazioni dei dirupi. La morfologia delle pareti dei canyon si rivelò perfetta per ospitare le nuove sedi insediative. Pareti rocciose a picco e spesso a strapiombo sul fondo valle erano solcate da fessure della roccia a volte di dimensioni contenute (e in questo caso si rivelarono idonee ad ospitare depositi di materiali), altre volte di consistenza tale da poter ospitare veri e propri villaggi. L’insediamento di Cliff Palace, nella Mesa Verde, nel Colorado sud-occidentale, non lontano da Durango, è un altro esempio emblematico dello splendore di questa civiltà. E’ situato circa 150 km. in linea d’aria a nord del Chaco Canyon, più o meno alla stessa longitudine. Il parco nazionale della Mese Verde, patrimonio dell’umanità per l’Unesco, fu battezzato dagli Spagnoli, i primi Europei che entrarono in contatto con questa realtà, come “altopiano verdeggiante”, occupato dagli Anasazi sicuramente già dal VI secolo. Conserva i resti di diversi centri per un totale di circa un migliaio di abitazioni scavate nella roccia che possono essere annoverate tra quelle meglio conservate. Tra queste emergono per rilievo quelle del Cliff Palace, considerata il più ampio complesso troglodita dell’America settentrionale . La città, che raggiunse un elevato grado di inurbamento alla metà del XII secolo, si offrono oggi al visitatore nella loro magnificenza: 200 stanze d’abitazione, 23 ambienti cerimoniali sotterranei (una media di 10-12/1), svariati torrioni di avvistamento e difesa. La sua edificazione è stata adattata al riparo di un costone roccioso che digrada spesso vertiginosamente nel canyon sottostante. Vi si accedeva con un complicato sistema di appoggi e sporgenze che potevano essere utilizzate come scale e, comunque, come sostegno per chi si arrampicava. Anche in questo caso, come già detto per Pueblo Bonito, ci troviamo di fronte ad una sorta di centro di raccolta della popolazione per particolari bisogni, come quelli difensivi, religiosi o commerciali. Anche Cliff Palace può essere visto come una sorta di capitale organizzativa. Sempre nella Mesa Verde conservano tracce della presenza Anasazi la località di Spruce Tree House, che conserva una delle abitazioni di maggiori dimensioni dell’intero parco, la Balcony House, alla quale si accede su arditi passaggi sospesi nel vuoto e la Long House. A fronte delle analogie fin qui segnalate, i complessi del New Mexico si differenziano per alcuni aspetti architettonici da quelli del Colorado. I primi presentano un uso di materiale litico maggiormente squadrato con i riempimenti ad opera di materiale sminuzzato. Per i secondi è stato utilizzato materiale meno pregiato. Questi ultimi sono rinomati anche per la presenza di edifici a forma di torre, di ispirazione messicana, a volte elevate per diversi piani, che avevano sia funzioni religiose, trovandosi adiacenti a luoghi di riunione, o forse più precisamente di avvistamento e difesa. Questo senza voler trascurare il notissimo monumento naturale del Canyon De Chelly (Arizona nord-orientale), al centro dei desertici Colorado Plateaus, in una vasta zona circoscritta dai bacini fluviali del San Juan a nord, del Colorado ad ovest, del piccolo Colorado a sud. E’ un’area che richiama le suggestioni di bellezze naturali assai note, come la Petrified Forest a sud e il Painted Desert ad ovest e la Navajo National Mountain a nord. In particolare, il Canyon de Chelly si configura come come una faglia naturale che solca una pianura desertica. A metà strada tra la città di Gallup,a sud-est e la Monument Valley e la città di Kayenta a nord-ovest, fa oggi parte della riserva Navajo. Ancor oggi colpisce il visitatore la possibilità di abbracciare con un’occhiata tutto l’ambiente circostante, più contenuto nelle dimensioni rispetto ad altre realtà geologiche analoghe prodotte dall’opera di escavazione dei corsi d’acqua. Sul fondo del canyon si notano ancora verdi campi di ridotte dimensioni. A mezza costa, scavate nella roccia, sono ancora presenti e visitabili gli ambienti che hanno ospitato la popolazione locale fino al loro abbandono, nel XIV secolo. Alle pareti di diversi ambienti sono presenti numerosi pittogrammi incisi sulla roccia. Si trova più o meno alla stessa latitudine ad ovest del Chaco Canyon da cui dista circa 150 km. in linea d’aria. Più circoscritto il complesso di Roadside Ruin, tipico esempio di deposito di granaglie in uno dei siti più a nord che conservano tracce della presenza Anasazi, punto di riferimento nelle Canyonlands, nello Utah orientale. I centri erano dotati di servizi assai sofisticati, come efficienti acquedotti, ed erano collegati con grandi e spaziose vie di comunicazione; queste si diramavano solitamente da quella che può essere considerata la sede centrale, la capitale, la città del Chaco Canyon; colpisce l’ampiezza della carreggiata, che giungeva spesso ai 9/10 metri e la lunghezza complessiva delle opere, che supera i 300 chilometri. Le strade seguivano le particolarità orografiche del territorio che permettevano la realizzazione di vasti tratti rettilinei. Con le varie arterie la capitale si trovava così collegata ai villaggi minori, molti dei quali sono stati catalogati tra i luoghi di culto che richiamavano lo spostamento dei viaggiatori. Tra queste strade una delle più conosciute è la Great North Road, la "Grande Strada del Nord" che si sviluppa, come altre strade, lungo un asse nord-sud. |
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Crisi demografica
Attorno alla fine del XIII secolo, forse in presenza di una minaccia ancora più consistente da parte delle nuove popolazioni degli Apache e dei Navajos che ebbe un effetto negativo nel determinare la scomparsa di vecchie civiltà come quella degli Hohokan, si verificò un ripiegamento degli Anasazi all’interno dei propri territori e una progressiva crisi involutiva. Forse le difficoltà di sopravvivere in un territorio ristretto, in ambiti angusti, senza possibilità concrete di sviluppo economico, determinò anche crisi politiche interne. Certo non facilitò lo svolgimento delle consuete attività e determinò una crisi produttiva e, di riflesso, alimentare, che impoverì la popolazione degli Anasazi sia dal punto di vista economico che da quello fisico. Come nel caso dell’abbandono dei centri abitati in Europa (e in Sardegna) questa non dovette essere l’unica causa. L’esame del materiale ligneo ritrovato nei centri Anasazi, costituito in gran parte da travi e pilastri di sostegno, ha rivelato tracce di un lungo ventennio di grande siccità che sembra potersi datare in chiusura del 1200. Gli studiosi lo hanno dedotto dall’esame delle dimensioni degli anelli di accrescimenti annuali degli alberi usati per l’edilizia, che sono stati ritrovati all’interno delle abitazioni degli Anasazi. Un’indagine analoga andrebbe svolta anche in sede locale; possiamo stare certi che, al pari dell’esame della documentazione scritta e dello studio dei resti archeologici, potrebbe svelare interessanti aspetti legati alla conoscenza del tema che stiamo studiando. In mancanza di documenti specifici, soprattutto nel caso di ricerche quali quelle di popolazioni primitive che non hanno prodotto la scrittura, come per gli Anasazi, questa, la dendrocronologia, può offrire significativi e attendibili elementi di riflessione. Va detto che la siccità del tardo XIII secolo non fu certo isolata. Agli inizi del XII viene individuato un altro periodo di grave carenza idrica che aveva già causato alcuni problemi alle popolazioni dei Plateaus determinando una crisi della produzione agricola e un probabile abbandono temporaneo degli insediamenti più isolati e meno densamente popolati. Le crisi del XII secolo, comunque, erano state superate. Non così quella a cavallo tra XIII e XIV secolo. Alcuni hanno notato che le necessità costruttive obbligarono queste popolazioni a massicci prelievi di legname da costruzione e da sostegno che impoverirono definitivamente le riserve boschive di una regione già segnata da una piovosità non eccessiva. Non si sa se il taglio indiscriminato e totale del patrimonio boschivo sia stato influente o risolutivo per determinare variazioni climatiche. La risposta potrebbe essere positiva, anche considerando i catastrofici esempi che analoghi interventi di modifica operati dall’uomo sulle riserve naturali hanno avuto nel corso del tempo. Basta pensare al disastro ecologico ed etnico che si verificò nell’Isola di Pasqua a causa di un analogo irresponsabile disboscamento imposto dalla necessità di erigere i maestosi e ancora misteriosi Mohai; basta fare riferimento agli avvertimenti che anche oggi vengono lanciati in concomitanza degli indiscriminati e massicci interventi dell’uomo sulla foresta tropicale, in quella amazzonica in particolare, dopo che nei secoli passati sono state impoverite e spesso distrutte totalmente le riserve boschive delle zone temperate. In conseguenza di questa spaventosa siccità le fonti di approvvigionamento idrico, che permettevano la sopravvivenza dei centri dove la popolazione aveva trovato rifugio, andarono via via esaurendosi. I poveri corsi d’acqua della zona si prosciugarono. Dalla Mesa Verde cessò l’apporto di acque verso il San Juan, a sud. Nel Chaco Canyon si verificò lo stesso fenomeno per le acque convogliate sempre verso il San Juan, ma questa volta verso il settentrione. Anche i corsi d’acqua dei Colorado Plateaus si inaridirono e non irradiarono più il loro sistema adduttivo verso il San Juan a nord, il Colorado ad ovest, il Piccolo Colorado a sud. A differenza delle altre popolazioni della zona desertica del sud-ovest, gli Anasazi non avevano sviluppato una tecnologia sufficiente all’utilizzo irriguo delle acque. Pertanto la semplice mancanza di pioggia causò gravi situazioni di carenza alimentare, di fame, probabilmente di epidemie, dovute a un’alimentazione povera di vitamine. I valori demografici decaddero velocemente e la popolazione superstite, indebolita, malata, si ritirò sempre più nelle sue roccheforti. Gli archeologi hanno ipotizzato il verificarsi anche di effetti catastrofici, causati dall’insoddisfazione popolare, che portarono agli incendi e alle uccisioni che hanno lasciato tracce evidenziate nelle loro ricerche. Nonostante i nuovi insediamenti, costruiti a scopo protettivo sulla sommità di rilievi, sovente difesi da torri in pietra di altezze variabili fino a sei metri, con case dotate di murature di spessore notevole e coperte con terrazzamenti che potevano essere adibiti anche alla difesa, queste popolazioni subirono spesso l’attacco di gruppi ostili. Attorno alla metà del XIII secolo sono state documentate in diverse località, e soprattutto nel Canyon Gallina tracce di incendi devastanti che bruciarono tutte le abitazioni. Sui pavimenti furono trovati ancora insepolti scheletri sia maschili che femminili con punte di freccia ancora infisse nelle ossa. Era il segno di un attacco e di una difesa disperata. |
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Villaggi abbandonati
Fu per questi problemi che gli Anasazi, secondo una cronologia che non è stato ancora possibile ricostruire con esattezza, probabilmente nella prima metà del XIV secolo, abbandonarono le loro città, le loro terre aride, in cerca di regioni più accoglienti. Gli insediamenti della Mesa Verde furono tra i primi ad essere abbandonati. Le popolazioni superstiti migrarono in parte poco distante, al confine tra Colorado e New Mexico, lungo il corso del San Juan, altre a nord est dell’Arizona, e si stabilirono lungo il Piccolo Colorado. Le Aztec e le Salomon Ruins sono alcuni dei centri di raccolta delle popolazioni dell’esodo. Altri gruppi migrarono verso il corso superiore del Rio Grande, nel New Mexico settentrionale e ne seguirono l’orientamento verso meridione, fino a raggiungere la zona di El Paso e di Ciudad Juarez, le due città vicine, la prima in territorio USA, la seconda in Messico. Proseguendo ancora la marcia, in direzione sud-ovest, raggiunsero infine i territori messicani di Casas Grandes. Avevano percorso ben oltre 600 chilometri dalla capitale del Chaco. Stephen H.Lekson ha pubblicato una notizia sulla rivista Archaeology nella quale sostiene la consequenzialità diretta dello spostamento degli Anasazi dalle vecchie sedi alle nuove e si spinge in un ardimentoso riferimento astronomico notando che la migrazione avvenne lungo la direttrice nord-sud rigidamente rispettata lungo il meridiano 108, che collega idealmente gli insediamenti di Chaco Canyon, Salomon Ruins, Aztec Ruins (verso nord) e Casas Grandes, nello stato messicano di Chihuahua (verso sud). In questa sede non è necessario seguire le ardimentose argomentazioni che si basano sull’ipotesi che già nel XIII secolo queste antiche popolazioni possedessero nozioni basate sul posizionamento degli astri che ci meravigliano anche considerando il fatto che l’allineamento stellare e la posizione della stella polare non corrispondeva al quadro attuale. Gli Anasazi superstiti riorganizzarono le loro comunità nelle nuove regioni, integrandosi con la popolazione e riproponendo, sia pur in rapporto alle nuove civiltà, i modelli ai quali si erano ispirati per secoli. Gli Hopi, gli Zuni e gli Acoma dell'Arizona possono essere considerati assieme ai Pueblo del Nuovo Messico i loro eredi diretti. Quando i primi occidentali, i conquistadores spagnoli, si imbatterono nelle rovine monumentali di quella grande civiltà, immaginarono di trovarsi di fronte ad un abbandono dovuto sostanzialmente ad eventi bellici. Lo deducevano dai segni ancora visibili di incendi e dal reperimento di cadaveri ancora insepolti. Da quanto abbiamo cercato di illustrare, invece, i fattori climatici ai quali abbiamo accennato possono essere visti come più di una semplice concausa. E’ evidente che nessun parallelismo storico diretto può essere tracciato tra i fenomeni dell’abbandono dei centri abitati della Sardegna o di altre regioni mediterranee o continentali europee, con quelli qui accennati per il Nord-America. Ciò che si può notare è, comunque, una contemporaneità di eventi forse fortuita, pur riferiti a territori così lontani e apparentemente privi di ogni elemento di contatto. Ma d’altra parte la terra è una sola, e forse a volte ci sfugge l’influenza a lungo termine e a lungo raggio di fattori naturali che crediamo, nei nostri limiti di indagine, circoscritti alla regione che conosciamo meglio o nella quale viviamo. |
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PER UN APPROFONDIMENTO BIBLIOGRAFICO
G. C. BALDWIN, America's Buried Past: The Story of North American Archaeology, New York, 1962. |
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LA CULTURA ANASAZI CRONOLOGIA
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