Note sulla struttura interna dei giudicati (secoli XI-XIII)
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a cura di Alessandro Soddu
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Lo
studio delle genealogie delle famiglie regnanti nei quattro
giudicati, pur tra grandi difficoltà e incertezze causate dalla estrema
carenza di fonti, ha posto in luce una probabile origine comune: si
ritiene cioè che la prima dinastia regnante nell’Isola sia stata quella
dei De Lacon e dei De Gunale, fattore che determinò lo
sviluppo di istituzioni politiche, giuridiche ed economiche molto simili
fra loro, anche se non del tutto uguali. Per questo motivo l’indagine
storica dovrebbe procedere, preliminarmente, all’analisi strutturale di
ciascuno dei regni giudicali per rilevare poi gli elementi comuni e le
peculiarità locali, superando l’equivoco che all’insularità della
Sardegna debba corrispondere necessariamente una unitarietà
politico-istituzionale, sociale ed economica. I quattro giudicati ebbero
differenti vicende storiche e una diversa “durata”: Cagliari, Torres e
Gallura caddero nella seconda metà del XIII secolo, mentre il regno
arborense sopravvisse fino ai primi del Quattrocento. Si potrebbe pertanto
parlare di una prima “età giudicale” che, dal punto di vista
delle fonti, abbraccia i secoli XI-XIII, e di una seconda “età
giudicale” concernente, in realtà, il solo regno di Arborea. In
deroga a quanto appena enunciato, nelle pagine che seguono ci si limiterà
a tracciare le linee essenziali delle strutture della prima età giudicale
seguendo il tradizionale percorso “unitario”, non essendo possibile
realizzare in questa sede uno studio articolato dell’intero fenomeno
storico. A
capo della piramide amministrativa stava il giudice (judike),
che deteneva il potere civile e militare. L’ascesa al trono era regolata
dal diritto di successione, ma era soggetta alla conferma dei maggiorenti
(majorales), laici ed ecclesiastici, e dei liberi
riuniti in assemblea (corona de logu). Per assicurarsi la
continuità dinastica i giudici associavano al governo i propri figli
dotandoli dei loro stessi poteri; in caso di assenza o di minore età del
giudice veniva nominato un “giudice di fatto”. Alla successione
erano ammesse anche le donne ed il titolo di giudice passava ai loro
mariti. Il
sovrano risiedeva nel palazzo regio, protetto da una speciale guardia
armata detta kita de bujakesos e dal majore de janna
(“guardiano della porta, del palazzo”). Nelle cancellerie
giudicali la stesura degli atti pubblici era affidata nei casi più
importanti ai vescovi, in quelli di minor rilievo a sacerdoti. Il sardo,
insieme al latino, era la lingua ufficiale dei documenti. La cancelleria
giudicale di Arborea (quella meglio documentata dalle fonti) era dotata di
un cancellarius, di un vicecancelliere e di scrivani, coadiuvati da
giovani aiutanti. Ogni
giudicato (logu) era articolato internamente in
distretti amministrativi, corrispondenti a precise subregioni geografiche,
chiamati curatorìas o (nel meridione dell’Isola) partes,
all’interno dei quali era una serie di villaggi (villas)
e agglomerati più piccoli. La dimensione insediativa predominante era
quella rurale tant’è che prima dell’apertura dei giudici a Pisa e
Genova non è presente nella (scarsa) documentazione medioevale in lingua
sarda il vocabolo “città”. Del resto, nei secoli IX-XI le
continue incursioni arabe nelle coste avevano determinato la decadenza e
il parziale abbandono delle città romano-bizantine. Gli unici centri a
mantenere una qualche vitalità furono quelli di Cagliari, Tharros,
Turris e Civita (Olbia), non a caso
originarie capitali dei rispettivi giudicati. In generale si verificò il
ritiro delle popolazioni nel più sicuro retroterra, incrementando la
diffusione dell’insediamento rurale. A
capo di ciascuna curatorìa stava un curatore,
nominato dal giudice, spesso all’interno della sua stessa cerchia
familiare. Il curatore aveva funzioni fiscali e presiedeva
le assise giudiziarie, denominate coronas. Ogni distretto
comprendeva un certo numero di villas, ciascuna governata da
un majore nominato dal curatore, che risiedeva nella villa-capoluogo.
I majores de villa avevano competenze fiscali e di polizia, mentre
l’amministrazione della giustizia era di competenza dei majores de
iscolca. Il termine iscolca o scolca, nel suo
significato originario derivato dal greco (skoúlka), indicava un
corpo di guardia col compito di proteggere e custodire le terre destinate
alla coltivazione, nonché di sorvegliare il bestiame. Nel Trecento tale
termine avrebbe assunto il significato di “circoscrizione territoriale
minore”, o l’aggregazione di due o più villaggi ai fini fiscali o per
la salvaguardia del territorio. Per
ciò che concerne la difesa militare del territorio, solo di recente sono
state avviate indagini insieme storiche e archeologiche che superassero
l’approccio sostanzialmente antiquario allo studio dei castelli
che ha a lungo caratterizzato la storiografia. Relativamente al giudicato
di Torres, l’edificazione di fortificazioni sembra da ricondurre
all’iniziativa dei giudici, e di Gonnario in particolare (seconda metà
del XII secolo), in funzione di un maggiore controllo del territorio nelle
sue aree strategiche (confini, viabilità, zone produttive). Il
sistema tributario giudicale poggiava sull’esazione di imposte
dirette e indirette (sull’uso delle terre e acque fiscali e sul
commercio) e su prestazioni di carattere personale nelle terre pubbliche e
in quelle private del giudice (peculiare o pegugiare). Altre
entrate erano costituite dalle multe e dalla vendita degli uffici (curatorìa,
majorìa, kerkitorìa, armentarìa, ecc.). Oltre che
al giudice o al suo armentariu, i sudditi (liberi e servi)
dovevano rispondere fiscalmente anche al curatore, al majore de
iscolca e ad altri majores. All’amministrazione dei beni del demanio
pubblico (rennu) era preposto un funzionario detto armentariu
de rennu, mentre il patrimonio privato, del giudice e della sua
famiglia, era affidato alla tutela di un armentariu de pegugiare.
Alla raccolta dei tributi provvedevano kerkitores e portorarios,
mentre nei centri portuali l’amministrazione fiscale ed anche quella
giudiziaria era di competenza dei majores de portu. Le
imposte dirette (cergas) includevano il datu
o dadu (imposta sul reddito agrario), quote di grano e orzo,
quote di capi di bestiame in relazione alla consistenza della mandria o
gregge, la decima parte dei suini introdotti nelle selve a scopo di
ingrasso e, solo in determinate aree geografiche, quote di falchi. Le imposte
indirette comprendevano i diritti di pascolo, coltivazione, uso delle
selve, estrazione del sale, caccia, pesca, vendita del vino, vendita della
carne (pegus de quasquariu, capo di bestiame offerto come tassa di
macellazione) ed il teloneo (dazio sulla circolazione delle merci). Le
prestazioni di carattere personale sono definite in vario modo
nelle fonti: operas, serbitius de personis, arrasonis,
munias, ginithu; esse consistevano in servizi generali quali
il servizio militare e la partecipazione alle coronas e alle cacce
collettive (silvas), ed in una serie di prestazioni di carattere
agrario quali l’arrobadia, il gimilioni, la moltura
(molitura dei cereali), o più particolari come le angarias
(servizi prestati con cavalli per il servizio di posta). Le
fonti non chiariscono se i giudici si fossero appropriati delle decime
ecclesiastiche, o se, piuttosto, venissero riscosse decime
“laiche” oltre a quelle sacramentali, e, infine, se i giudici
stessi versassero le decime alla Chiesa. Per
quanto concerne la struttura della società giudicale, al vertice
vi erano, naturalmente, il giudice ed i membri della sua famiglia, ai
quali spettavano i titoli di donnos e donnikellos
(dal latino dominos e dominicellos). Subito al disotto vi
erano i grandi proprietari fondiari (liberos mannos o majorales),
anch’essi con la qualifica di donnos. Seguivano i medi e
piccoli proprietari (liberos) ed infine i servi (servos
e ankillas). Questi ultimi avevano dignità giuridica ed il loro
rapporto col padrone era basato sulle giornate di lavoro: un servo era
detto intrégu (intero) quando prestava il proprio lavoro
per quattro giorni alla settimana; lateratu o latus,
quando per due giorni, pedatu o pede, quando per uno.
Il servo poteva perciò dividere le proprie operas, generalmente di
carattere agro-pastorale, fra più padroni, frazionando anche le proprie
prestazioni in dies (giorni lavorativi al mese). Data la forte
richiesta di manodopera, i servi, o, meglio, le loro prestazioni
d’opera, erano oggetto di donazione, acquisto, vendita e permuta. Quanto
alle ancelle, la loro attività prevedeva sia lavori tradizionalmente
femminili, tra i quali anche la tessitura del lino e della lana, sia
lavori legati al ciclo della mietitura che la cura degli animali da
cortile. All’interno
di questo schematico quadro della società giudicale vi erano in realtà
altre figure la cui collocazione oscilla tra la condizione di liberi e
quella servile: liberos ispesionarios (liberi censuari), liberos
muniarios (debitori di munias), liberos de paniliu
(tenuti a lavori agricoli e artigianali), collivertos (servi
affrancati che mantenevano alcuni obblighi specifici) ed infine i terrales,
le cui mansioni sembrano variare dalle attività agricole (terrales de
fittu) a quelle militari (terrales ab equo). |
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La
Sardegna giudicale (secc. XI-XIII): l’organizzazione
amministrativa |