I documenti medioevali ci hanno tramandato notizie a volte incerte, ma sempre interessanti, su diverse figure femminili che rompevano i canoni classici, assumendo via via fisionomia di vere e proprie donne di stato, imprenditrici, guerriere.
Tra queste ricorrono frequentemente personaggi dal nome Giorgia, ossia
Giolzia.
La figura di Giorgia e le sue imprese sono immaginate in questo racconto
come un viaggio tra storia, leggenda e fantasia.
Sulla
catena del Limbara, che segna il confine tra il Logudoro orientale e la
Gallura, c'è una località che si chiama Giolzia e c’è su quell’altura
l’impronta di una pagina di storia: i resti di una roccaforte, un
castello, che risale al periodo medioevale.
Perché questo nome? Frugando fra le cronache e i libri, il nome Giolzia,
Giorgia, appare frequentemente e sappiamo che per
alcuni era una principessa, sorella di Comita, primo giudice di Torres.
Il Condaghe di San Gavino riporta sue notizie che trovano riscontro in tutta
la tradizione popolare del Logudoro e nelle leggende che parlano di lei,
spesso con toni epici, ma sicuramente fondate su base storica. Questo può
essere considerato un libero racconto, una «fantastoria» che la vede
protagonista; anche se nessun documento ce la descrive chiaramente, possiamo
immaginarla così…
Giorgia, Caterina e Preziosa erano le tre sorelle del giudice Comita. Sin
da bambina Giorgia aveva mostrato un animo ribelle e indipendente e,
nonostante la rigida educazione e la sorveglianza continua, soprattutto
della sorella Caterina, trovava il modo di aprirsi degli spazi tutti suoi,
nei quali poteva liberamente dedicarsi ad attività e
passatempi che erano rigorosamente proibiti ad una fanciulla di quei
tempi.
Aveva dieci anni quel giorno che decise di allevare un falco e di
addestrarlo per la caccia. Era un tiepido pomeriggio di primavera e si
trovava nella reggia di Torres, dimora preferita dal giudice Comita. Un
falco aveva nidificato sul torrione del castello e Giorgia aspettava il
momento propizio per catturare uno dei piccoli, approfittando dell’assenza
della madre dal nido. Aspettava paziente e, giunto il momento favorevole,
si arrampicò agilmente sulle mura e prese un falchetto. Lo allevò con
cura, come spesso aveva visto fare dal fratello e dal padre e lo addestrò
a riconoscere la sua autorità, ad amarla e a temerla allo stesso tempo.
Dopo breve tempo dalla cattura gli tagliò le unghie, gli attaccò un
campanellino alla zampa e, aiutata da un servitore compiacente, gli cucì
le palpebre, affinché, cieco, potesse apprendere ancora di più le varie
fasi dell’addestramento. Il falco divenne in quel periodo il suo amico
più caro e con lui trascorreva lunghi pomeriggi. Quando si accorse che l’addestramento
era finito, gli concesse di nuovo la luce e insieme al fedele servitore lo
portò a caccia, col capo coperto da un cappuccio che lei stessa aveva
cucito, e che gli tolse solo quando percepì la presenza della preda da
catturare. L’esordio fu perfetto.
Avvistata una piccola lepre indifesa, il falco la ghermì e, all’ordine
stabilito, la portò dalla padroncina. Quanta felicità quel giorno per
Giorgia! La sua pazienza e la sua costanza vennero premiate da tanta
efficienza e da quel giorno falco e falconiere vissero in perfetta
simbiosi.
Nessuno dei familiari seppe per lungo tempo come Giorgia trascorreva i
lunghi pomeriggi e tale situazione le permise di poter fare altre
esperienze.
Il mare, che ammirava dall’alto del castello di Torres, aveva per lei un
fascino particolare e proibito; si sentiva attratta soprattutto da una
piccola baia che si lasciava abbracciare da grandi massi levigati, dalla
sabbia bianca e luccicante, simile ad un'argentea falce di luna. Sapeva
che nessuna donna della famiglia aveva mai osato avvicinarsi alla riva del
mare, ma sapeva anche che uno dei cani allevati dal fratello amava spesso
allontanarsi dalla reggia per tuffarsi in acqua. Così, un giorno d’estate,
decise di seguirlo.
Attraversò, non vista, l’ampio cortile e prese la via che il cane
conosceva e le indicava. Si tuffò nel grembo di una natura stupenda che l’avvolse
tra i profumi e i colori caldi e intensi di un pomeriggio di sole.
Giorgia giunse alla riva del mare. Il silenzio infinito che l’accolse le
pulsava nelle tempie. Non c’era alito di vento e il cielo si confondeva
col mare, formando un’immensa distesa azzurra. Il cane aprì le narici,
aspirò profondamente e si immerse in acqua lentamente. Giorgia lo
osservava, ne seguiva i movimenti mentre si allontanava dalla riva. Poi lo
seguì. Imitando l’animale si accorse presto di saper galleggiare. Un
senso di libertà profonda la invase e si abbandonò felice all’abbraccio
del mare.
Ben presto divenne un’abile nuotatrice e spesso riusciva ad eludere la
sorveglianza per abbandonarsi al piacere di un lungo bagno che la faceva
sentire naturalmente libera.
La sorella più grande, Caterina, osservava i mutamenti di Giorgia. Si
accorse delle sue misteriose assenze dalla reggia e ne parlò coi
familiari che decisero così di allontanarla da Torres e inviarla per un
certo periodo di tempo presso alcuni parenti che abitavano nei territori
del Monteacuto. A Giorgia non dispiacque; la vita nella reggia era
diventata per lei quasi una prigione.
Su un carro a buoi viaggiò per alcuni giorni in compagnia di servitori di
fiducia. Attraversò diverse terre del suo giudicato e giunse poi nella
piana di Bisarcio. Tutto intorno regnava un formicolio irrequieto: nitriti
di cavalli, muggiti di buoi, si confondevano nell’aria formando un
insieme simile al brontolio del tuono. Al centro della pianura sorgeva un
piccolo villaggio. Le capanne e i loro abitanti, nelle aie pronte per la
trebbiatura, la aspettavano; offrivano allo sguardo di Giorgia il più
ricco dei quadri; sembrava che i colori fossero stati dati con grandi
pennellate dall’arte inimitabile della natura. Fu accolta come una
regina e quella nuova terra fu la sua casa.
Così Giorgia, come dice il Condaghe di S. Gavino, divenne
«una forte femina, qui issa curriat mandras et recogliat sas dadas et icusta fetit sa Corte de sa villa de
Ardu et fetit su casteddu de Ardar, et fetit ad Santa Maria de Ardar… et standu malaydu cussu iudike
Comida, donna Iorgia, sorre sua, fetit guerra ad iudighe Baldu de Gallura tantu qui lu vinsit in campu
et vatussitilu tentu a su diti iudighe de Gallura in fina ad su casteddu de Ardar».
Una principessa, dunque, che si occupò dei beni della famiglia, persino
nelle mansioni più umili, come il controllo e la cura delle greggi che
affidò a pastori esperti che conducevano il bestiame in pascoli diversi,
a seconda delle stagioni. A primavera inoltrata era lei stessa che fissava
il tempo della tosatura e la lana, depositata in grandi magazzini dei
villaggi, veniva poi consegnata alle donne, espertissime nella filatura e
nelle tessitura.
Si interessava personalmente della raccolta dei gettiti fiscali del regno;
utilizzava i proventi per modernizzare le strutture civili, abbellendo e
rafforzando edifici pubblici come la chiesa di S. Maria del Regno e il
castello, ad Ardara. Proprio in questo castello e in questo villaggio
Giorgia amava rifugiarsi nei periodi di maggiore stanchezza.
Col tempo il suo carattere ribelle e spigoloso fu smussato, ma rimase una
principessa dal carattere fiero e coraggioso, una donna che giunse a
diventare guerriera e che dichiarò guerra al giudice Ubaldo di Gallura,
lo sconfisse e lo portò prigioniero al castello di Ardara. Aveva reso
così più sicuro il territorio del regno alle falde del Limbara,
territorio occupato un tempo dai Balari, come Giorgia aveva sentito spesso
raccontare. Questo angolo del regno fu quello più amato da Giorgia.
Vi giungeva a cavallo dal castello di Ardara. Lungo il cammino i contadini
e i pastori la salutavano e d’inverno, nei villaggi, si preparavano
grandi bracieri per riscaldare la principessa. Questi semplici sudditi le
insegnavano gli elementi delle conoscenze che possedevano e lei ne era
felice. I viaggi all’interno del giudicato erano il mezzo più efficace
che aveva per comunicare col popolo. Sapeva ascoltarlo, guidarlo, e nelle
capanne, dove l’unico ambiente era cucina, sala da pranzo, di
ricevimento e dormitorio, si fermava con piacere. Poi ripartiva.
Era bello guardarla come stava in sella; rubava a tutti un grido istintivo
di ammirazione. Il busto eretto, i grandi occhi marroni, attenti, le gambe
nervose, spesso imprigionate dalle lunghe e pesanti sottane, aderivano
perfettamente all’animale; la punta del piede poggiava leggera e sicura
sulla staffa piccolissima. Sul cavallo sembrava un acrobata che volteggia
nella pista e sul cavallo poteva passare giorni e giorni, lì mangiava,
cacciava, dormiva, vigilava, sempre pronta al freno, agilissima. Si
divertiva anche ad aggirarsi nel regno, travestita in brache e mastruca,
con la barba finta per non essere riconosciuta e in quei momenti galoppava
come un diavolo scatenato mentre sentiva battere tra le gambe il cuore del
cavallo. Anche lui si divertiva ed ansimava aspirando l’aria a grandi
boccate.
Amava inoltrarsi nei boschi, scoprire luoghi nuovi dove poter riposare. Fu
così che un giorno giunse nel territorio di Bala, presso il vilaggio di
Vriquilla, l'odierna Berchidda.
Attraversò una breve pianura e si inoltrò sul suo cavallo verso una zona
dove nereggiava la grande massa di un bosco.
Cavalcava sola e sicura. I grandi occhi, brillanti, con ciglia folte e
castane come i capelli, guardavano lontano, scrutavano ogni angolo; le
orecchie tese percepivano ogni rumore, anche quello dell’acqua che
scrosciava in lontananza.
Al suo passaggio centinaia di colombi selvatici fuggivano spauriti dalla
cima degli alberi. Il bosco sussurrava leggermente perché gli aliti di
vento, freschi e profumati, facevano stormire le sue giovani foglie.
Poi l’ambiente cambiò aspetto e davanti a Giorgia apparvero le
montagne. Le cime non erano tutte uguali: alcune più ardite e orgogliose,
sembravano voler raggiungere il cielo; altre, più rotonde e accoglienti,
apparivano preoccupate di offrire nascondigli. Ai loro piedi i macchioni
di rovo e corbezzolo si alternavano a rocce granitiche, scolpite dal tempo
e intessevano una fitta volta verde dove la luce non penetrava che a
sprazzi.
Il cavallo sentiva l’odore dell’acqua e la salutava con un nitrito di
gioia. Si fermò presso una grande piscina alimentata da una sorgente,
presso la quale un ampio leccio gettava la sua ombra tra i teneri arbusti.
Giorgia scese da cavallo, si guardò intorno, gustò quella nuova luce
lenta e calda come una coperta, crepitante come il pane appena fatto e,
tolti gli abiti, si concesse il piacere di un bagno nell’acqua limpida
come il cristallo. Poi si distese su una roccia, accanto al cavallo, e si
lasciò inebriare dai profumi che si spandevano intorno.
Osservava il suolo pulsante di vita: piccole rosse formiche si incuneavano
in minute gallerie portando con sé pesanti fardelli, ragni abili e
silenziosi che tessevano la loro tela, tenere raganelle che singhiozzavano
i loro canti, rapidi fruscii di. Così, mentre il tramonto tingeva di
rosso il creato, decise: lì avrebbe costruito una fortezza, non solo per
il Giudicato, ma soprattutto come rifugio, per sé, per i suoi ricordi,
per i suoi sogni di donna.
Tornata al castello di Ardara, comunicò il suo progetto ad alcuni fedeli
consiglieri che ne approvarono le linee, anche perché il territorio
scelto da Giorgia era il più favorevole per costruire una roccaforte che
potesse controllare le ambizioni espansionistiche dei giudici di Gallura,
antagonisti del Regno.
Proprio in quei giorni un grave lutto colpì il regno di Torres: moriva il
giudice Comita. Egli non si era mai interessato direttamente alle terre
che Giorgia governava con tanta efficacia e passione. Il suo ruolo, a capo
del giudicato, è però descritto sia dal punto di vista sociale che da
quello della sua profonda fede religiosa nei pochi documenti a noi
pervenuti. Fu lui a volere con forza l’edificazione della basilica di S.
Gavino, che ancora oggi possiamo ammirare a Porto Torres in tutto il suo
splendore.
La sorella Caterina, alla morte del fratello, aveva preso le redini del
Giudicato in nome del nipote Orgodori.
Caterina si oppose fermamente alla decisione di Giorgia, sollecitata dai
maiorales che vedevano nella giovane principessa un pericolo per la loro
autorità e per la presa che la sua figura poteva avere presso il popolo
che sempre più l’adorava e la indicava come la vera regina del
Giudicato; era lei che riusciva a guidarli, ad amarli, a capirli, a
difenderli nella loro quotidianità. Il rapporto che si era stabilito fra
Giorgia, i contadini, i pastori, gli artigiani, i servitori, era tale da
permetterle anche decisioni che non fossero in sintonia con quanto la
fredda Caterina e i suoi consiglieri ordinavano.
Per questo Giorgia, ferma e indipendente nel realizzare quanto aveva
progettato, ebbe la meglio.
Così la macchina organizzativa da lei voluta iniziò la sua opera. Ella
stessa si recò nuovamente sul luogo accompagnata da un vasto seguito: i
maiores dei villaggi della zona, i curatores, amministratori dei beni
pubblici e privati della corte, i componenti della scolca, la sua guardia
privata. Ripercorse con emozione crescente il cammino e giunse sul posto
prima di tutti gli altri.
Era primavera, il torrente di Bala era in piena ed offriva a Giorgia uno
spettacolo nuovo, fatto di piccole cascatelle vocianti, vivaci, allegre.
Si fermò per gustare quell’inaspettato quadro e attese gli altri su una
roccia piatta, che veniva di tanto in tanto baciata dalle acque del
torrente. A nord-ovest del corso d’acqua aveva individuato un roccione
dall’aspetto fiero e robusto: era lì che voleva la sua roccaforte e la
indicò agli uomini, che nel frattempo l’avevano raggiunta.
Risalirono il torrente tra anfratti naturali e boscaglie; qua e là
Giorgia scoprì con stupore massi squadrati, lavorati dall’uomo, piccole
schegge di ossidiana, il vetro vulcanico che ben conosceva, cocci di vasi
di fattura a lei sconosciuta e poi una piccola ascia di pietra e punte di
freccia.
Le raccolse incuriosita. Tutto ciò che la circondava sembrava nascondere
la vita di un popolo lontano: ne sentiva i passi, le voci, ne intuiva la
presenza.
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Era proprio quella la zona abitata dai Balari, di cui tanto aveva sentito parlare? Era lì che avevano vissuto, gelosi della loro civiltà, della loro indipendenza! Era lì che avevano preparato agguati contro il nemico che veniva dal mare, il potente nemico di Roma che violava i boschi, le grotte,
spesso alla loro vana ricerca! Era lì che i suoi antenati avevano difeso sino all’ultimo sacrificio l’indipendenza del loro territorio e della loro civiltà! Così riflettendo giunse ai piedi del roccione.
Alzò lo sguardo verso la cima, accarezzò con un gesto di possesso la parete che odorava di muschi e licheni e socchiuse i grandi occhi, quasi avesse necessità di un attimo di quiete dopo la lunga galoppata. Poi sfilò i guanti di cuoio, raccolse i capelli sulla nuca con gesti rapidi ed esperti, lasciando libero il viso che apparve agli uomini che la osservavano, ancora più attraente perché, a detta di tutti, Giorgia diventava più bella quando era tesa, preoccupata, ansiosa. Allora il suo viso irregolare, dalle forti e decise mascelle, assumeva un fascino misterioso e chi la guardava vedeva le sue tempie pulsare e ne coglieva il suono, che vibrava di forza e decisione, imponendosi all’attenzione di tutti.
Era questo il suo essere donna, e se ne compiaceva; lei, così abituata a vivere tra uomini talvolta rozzi e maldestri, non aveva mai dimenticato la sua femminilità, che traspariva da piccoli gesti quotidiani, che la sorprendevano a rispecchiarsi nelle acque di una fonte, ad ammorbidire le mani con impacchi di malva o a lucidare a lungo i suoi denti con la salvia appena raccolta.
Dicevano che la bocca di Giorgia profumava sempre di bosco, e lei lo sapeva; perciò non poteva deludere coloro che conoscevano il fascino del suo sorriso.
La stessa femminilità traspariva anche quando, stanca per l’impaccio delle pesanti sottane, le riprendeva velocemente lasciando libere le gambe, per muoversi con maggiore agilità.
Così si comportò anche quel giorno mentre gli uomini le tendevano le corde per arrampicarsi sul roccione inesplorato. fece tutto con estrema naturalezza; sembrava a tratti volteggiare lungo la parete. Poi giunse sulla sommità. Ancora una volta rimase colpita dalla suggestiva bellezza che l’abbracciava.
Scrutando il terreno sul quale era approdata scoprì i resti di una costruzione simile a quelle che esistevano sparse per tutto il territorio da lei conosciuto: i nuraghi. Qualcuno prima di lei, pensò, aveva capito quanto importante fosse, dal punto di vista strategico, quel sito, e qualcuno prima di lei lo aveva scelto come dimora. Poi il suo sguardo andò oltre.
Osservò la pianura sottostante, il fiume in lontananza e i piccoli villaggi. Disse agli uomini che la guardavano in silenzio e aspettavano i suoi ordini che lì doveva sorgere la fortezza che avrebbe avuto il suo nome: Giolzia.
Seguì i lavori di costruzione con meticolosità, quasi puntigliosa: scelse le pietre, i mattoni, le posizioni delle piccole feritoie, il tipo di scala retrattile che permetteva l’accesso alla rocca.
Una volta compiuta l’opera, la consegnò come una creatura ad alcuni uomini di sua fiducia, con l’incarico di sorvegliare il territorio circostante.
All’esterno della roccaforte aveva stabilito che ci fosse un ampio sedile di pietra che guardava ad occidente, verso la rocca di Monte Acuto, per poter essere sempre in diretto contatto col potere centrale che lì aveva un’importante base. Era possibile dalla rocca, che ormai tutti chiamavano di Giolzia, comunicare visivamente col castello principale, tramite l’uso di oggetti che riflettevano la luce, fuochi, segnali di fumo.
Su quel sedile, su quella rocca, Giorgia scelse un piccolo spazio riservato solamente a lei, spazio destinato a meditare, a riflettere, a sognare. E così fu. Sulla rocca la principessa prendeva decisioni importanti, vi si rifugiava quando era stanca e sola; lassù riusciva ancora a vedere il mondo con gli occhi freschi della giovinezza, a stupirsi, a sorridere, anche di fronte alle complesse vicende della sua vita quotidiana.
Tutti sapevano che Giorgia aveva lì non solo un punto strategico sul territorio, ma anche un rifugio, e rispettavano il suo desiderio di stare sola, almeno per pochi istanti. Quel luogo era per lei, così forte e orgogliosa della sua autonomia, un richiamo al quale non sapeva rinunciare. Le accadeva perciò, talvolta, di abbandonare all’improvviso la reggia di Ardara, gli affari, gli incontri importanti, e di sellare di persona il suo cavallo al quale bisbigliava la destinazione accarezzandolo sui fianchi. Così accadde anche quel giorno d’autunno.
Partì fieramente al galoppo, come sempre, salutando gli uomini di guardia che capirono, dall’energia della voce, dallo sguardo ansioso, dove era diretta. Il terreno era un manto rossiccio in cui le zampe del cavallo affondavano dolcemente. Lungo il cammino Giorgia si lasciò dominare dal paesaggio, dai boschi, dalla quiete, finché giunse alle falde di Giolzia. Era scesa la notte. Un vento leggero portava l’odore della terra bagnata, del fango, della linfa vitale e rincorreva grosse nuvole nere, nel cielo senza stelle.
Contemplò dal basso l’imponente torre scura, dalla cima merlata, dalle strette e rade feritoie. Le torce, accese dagli uomini di guardia, che l’aspettavano, riverberavano discrete. Avvertì una vaga apprensione e si domandò perché mai provava un malessere così intenso, in un luogo a lei tanto familiare. Immersa in questi pensieri salì in cima alla rocca e trascorse la notte all’aperto, accanto al suo cane, da tempo compagno silenzioso e fedele.
Stette così seduta, con gli occhi pieni di sogni e il cuore pesante di rimpianti e ricordi. Di buon mattino si preparò per la solita passeggiata sulle alture circostanti «alla ricerca degli antenati», come era solita dire. La precedeva il suo cane che correva a lunghe falcate, col naso che quasi sfiorava il terreno. Camminò così a lungo, saltando fossi e siepi. All’improvviso,
tra la fitta boscaglia, scorse delle ombre, delle luci in movimento. La voce del cane assunse quella sonorità più prolungata, più alta, insieme furiosa e combattiva, tipica dei cani che raggiungono la preda. Anche Giorgia
si immerse nel boschetto; attraverso i rami filtravano i raggi del sole senza calore, che arrossavano appena la brina mentre tinnule voci si spandevano intorno come un richiamo ancestrale. Si fermò e non vide più niente: tutto era immobile, ma una forza le sussurrava di proseguire. E così fece.
A sera il cane rientrò solo alla rocca. Gli uomini attesero invano la principessa. Inutili furono le ricerche su tutto il territorio. Giorgia era scomparsa e di lei non si seppe più nulla.
Solo il torrente di Bala e le alture del Limbara conoscono la sua fine e ancora oggi, a chi sa ascoltare la voce del tempo, raccontano la storia della mitica principessa che vaga fra rocce ed anfratti nelle sere di luna, sulle orme degli antenati.
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